da Grammatica dell'armonia fantastica - Appunti e interludi
Il
leader e song writer dei Beach Boys, Brian Wilson, era in macchina quando
ascoltò per la prima volta Strawberry
Fields Forever, e l’emozione fu così forte che dovette fermarsi e
ascoltarla tutta con attenzione, per poi dire al produttore Michael
Vosse seduto accanto a lui, affranto: «Sono arrivati prima loro»[1], «i Beatles hanno trovato
il tipo di sound che stavo cercando
per i Beach Boys…». E forse allora non è un caso che anni dopo Aaron Copland
avrebbe detto: «Se vuoi conoscere gli anni sessanta, ascolta la
musica dei Beatles»[2].
Ma i suoni di Sgt. Pepper’s Lonely
heart Club’s Band[3] arrivarono anche
alle orecchie dei compositori e studenti che affollavano i Summer Courses for
New Music di Darmstadt, in uno dei loro locali notturni preferiti. Anche se la
cosa più interessante non è tanto che Ligeti fosse tra questi ad ascoltare i
Beatles venir fuori dagli altoparlanti, come ci racconta Alex Ross[4], ma che i Beatles stessi
erano stati in visita a Darmastadt l’anno precedente, durante la lavorazione
del loro album Revolver. E che
McCartney avesse studiato alcune composizioni di Stockhausen, come Gesang der Junglinger e Kontacte, e che avesse poi chiesto ai
tecnici di Abbey road di riprodurne alcuni procedimenti in Tomorrow never knows. Tanto che il volto di Stockhausen apparirà
nella copertina di Sgt. Pepper’s…[5].
Le
cose erano veramente cambiate da quando i Beatles, all’inizio della loro
carriera, registravano i loro primi
album in una sola sessione, e senza interruzioni, come usava all’inizio degli
anni sessanta; e le canzoni erano quasi sempre scritte di getto: «le
aspettative nei nostri confronti erano tremende. Volevano un disco, un 45 giri,
ogni tre mesi, e dovevamo scriverlo in dodici ore, in una stanza d’albergo,
oppure in un furgone»[6].
Ma,
stanchi delle interminabili tournée, e di concerti in cui non riuscivano a
sentire neanche il suono della loro voce per le urla continue delle fan,
cominciarono a dedicarsi al lavoro in studio, e la loro musica cambiò
profondamente.
Non
solo impararono abilmente a sfruttare le innovazioni tecnologiche che l’epoca
gli offriva, ma soprattutto arrivarono a dei tempi compositivi assolutamente inconsueti per quel tipo di
repertorio…
«…così i
Beatles entrarono nella seconda fase della loro carriera. Non erano più i puliti,
educati, sorridenti Fab Four, in giro per i palcoscenici a cantare canzoni per
ragazzi. Ormai erano vestiti come capitava, a volte baffuti, sorridenti solo se
ne avevano voglia; e pronti a realizzare una delle più grandi serie di
incisioni mai ascoltate nel rock, esclusivamente a uso e consumo dei propri
desideri, senza nemmeno porsi il problema di poterli suonare in pubblico»[7].
Emblematica
allora in questo senso è la storia di Strawberry
fields for ever di John Lennon[8].
Lennon
cominciò a lavorarvi nel settembre del 1966, quando era impegnato come attore
in Spagna, nella lavorazione del film di Richard Lester, Come vinsi la guerra, La
canzone nacque lentamente, quasi a fatica, potremmo dire, partendo dal suo
verso forse meno interessante ed incisivo (No
one I think is in my tree…), e lentamente prese forma. I Beatles infatti entrarono
in studio il 24 novembre del 1966[9],
e terminarono di inciderla dopo 45 ore di studio, tra le 19 e le 23 del 22 dicembre
dello stesso anno.
Quattro
mesi per il processo compositivo di una canzone, un bel battesimo per una nuova generazione di pop song…
Lennon
aveva cominciato a scrivere poesie al liceo, poesie che vennero consegnate ad
un editore da un amico di Lennon nel febbraio del 1964 (che le aveva ricevute
forse da un insegnante), e pubblicate dal Mersey Beat come The Tale of Hermit Fred e The
Lands of lunapos[10].Si
tratta di parodie e di puro nonsense: «Carroll e Swift incrociati col tipico
surrealismo di Liverpool…»[11].
Ciò
accadde un mese prima che uscisse il primo libro vero e proprio di Lennon, che
fu definito allora il Beatle scrittore, In
His Own Write, libro che scalò velocemente le classifiche di vendita e
ricevette recensioni entusiaste, e che si componeva di brevi prose (appunti,
barzellette, nonsense), poesie e disegni.
Nel
corso di un’intervista televisiva della BBC, un giornalista chiese a Lennon «come
mai nessuna delle fantasie e dei giochi di parole… fossero mai apparsi nei testi delle sue canzoni… Lennon non aveva
mai preso in considerazione questa possibilità e quantunque riuscisse ad
aggirare la domanda grazie al suo solito sarcasmo, dovette poi ammettere di
essere stato punto sul vivo dall’osservazione di Allsop»[12].
La
verità è che Lennon solo molto lentamente cominciò a mettere in comunicazione i
tasselli del suo mosaico interiore, e a capire che in una canzone poteva anche
parlare di cose intime, e utilizzare idee e immagini che gli erano sempre
appartenute, ma che aveva sempre tenuto fuori dal suo lavoro di songwriter.
Così
i nonsense alla Carroll confluirono in pezzi come I am the Warlrus, ispirato chiaramente ad Alice nel paese delle meraviglie, mentre nel caso di Strawberry fields, Lennon guardò al suo
passato e alla sua storia di disagio interiore e alla sua sensazione di essere
diverso dagli altri, non peggiore, né migliore, ma su di un altro ramo (…) e riguardo al testo della
canzone disse che si trattava di psicoanalisi
tradotta in musica….
La
ragione però per cui questa canzone finisce in un libro serio e importante come The Time of Music di Jonathan Kramer è
un’altra. E sta proprio nel modo in cui è stata utilizzata la tecnologia.
Dopo
poco più di un mese di sedute di registrazione infatti erano state realizzate
due versioni compiute della canzone. La prima in La maggiore, con la minima a
92 di metronomo, e la seconda – perché la prima sembrava a Lennon troppo
pesante e lenta – in sib maggiore, con la minima a 102, e con l’aggiunta di
trombe e violoncelli.
«John
Lennon mi disse che gli piacevano entrambe le versioni di Strawberry fields for ever, la prima canzone, più leggera, e quella
intensa e orchestrale», ricorda George Martin. «E disse: «Perché non attaccate
l’inizio della prima con il finale della seconda?». «Ci sono due cose in
contrario», gli risposi, «sono in due tonalità diverse e in due tempi diversi.
A parte questo, tutto a posto». «Benone», fece lui, «voi due non avrete
problemi a sistemarle!»
Ecco
un classico esempio di come l’ignoranza tecnica di John lo sostenesse nel
rifiutarsi di ritenere impossibile l’iniziativa più bizzarra. Così George
Martin e Geoff Emerick arrivarono ad
Abbey Road il 22 dicembre 1966, per verificare se ci fosse un modo per
soddisfare i desideri dell’incontentabile Beatle.
C’era.
George e Geoff studiarono accuratamente le due versioni e si resero conto che,
se avessero accelerato il remix della prima versione (nastro 7) e poi
rallentato il remix della seconda (nastro 26),
sarebbero riusciti a ricucirle, anche se avevano una differenza di un
semitono… Ora non restava che montare i due pezzi insieme e la canzone – quasi
un mese dopo – era finita. […]
Ci
riuscirono così bene che pochissimi, ancora oggi, sanno esattamente dove si
trova la giuntura in questione. «E’ strano», dice Martin, «io la sento ogni
volta. Si sente netta come un pugno nella stomaco, per me!»[13].
Congiunzione
che avviene esattamente un minuto dopo l’inizio.
Ma
la particolarità di questa genesi, di questo strano incrocio tra due parti
diverse che contribuisce a rendere il suono della voce di Lennon e di tutta la
canzone più irreale e surreale del solito, sono solo un pretesto per Kramer per
parlare dell’impatto delle innovazioni tecnologiche sul nostro modo di pensare,
ascoltare e comporre musica:
«Non
si tratta certo di una coincidenza se le nuove temporalità della musica del Ventesimo secolo, discusse
precedentemente, nascono in una cultura tecnologica. L’impatto della tecnologia
sulla musica negli ultimi decenni ha avuto due diverse facce. L’influenza
immediata e più scontata è avvenuta nei confronti del materiale musicale… Ma l’influenza sul tempo musicale e la sua
percezione è stata più sottile…»[14].
Il
fatto è che la possibilità di registrare e conservare un brano di musica ne ha
profondamente mutato il significato artistico e sociale, dice Kramer: «Noi
potremmo pensare conservativamente che le registrazioni siano puramente un
mezzo per preservare delle esecuzioni, ma in realtà sono molto più di questo.
Esse sono lavori d’arte [artworks] in
se stesse, non semplici riproduzioni»[15].
E in tali registrazioni, o meglio, nel prodotto discografico finale, il ruolo
dell’ingegnere del suono, e le modifiche (che non appaiono naturalmente nella
partitura) apportate in sede di registrazione e di missaggio hanno davvero un
peso notevole, tanto da costituirne una parte essenziale. La tecnologia
acquista così un ruolo importantissimo e forse sottostimato, tanto che –
sottolinea Kramer – ancora oggi non si pensa ad introdurre come materia
fondamentale lo studio delle tecniche di registrazione nei percorsi musicali
accademici. Inoltre il disco ha portato un brano di musica nelle nostre case,
anche una grande sinfonia, o una Messa solenne, «emancipando in questo mondo un
lavoro d’arte dalla sua parassitaria dipendenza da un’azione rituale».
Capolavoro che può diventare nostro: «Il
Concerto per mandolino di Vivaldi è vostro per soltanto un dollaro, dice
una recente pubblicità»[16].
Tuttavia
le modificazioni più profonde, come ho detto, avvengono proprio nella
percezione del tempo: «La tecnologia ha liberato l’ascoltatore dalla
completezza della forma musicale…»[17],
dal momento in cui egli è diventato libero di interrompere momentaneamente un
brano, di riascoltarlo all’infinito, o di sentirne solo dei frammenti. E molto
bello ed interessante è l’accostamento che fa Kramer tra l’atto del tagliare un
nastro magnetico per fare dei montaggi e degli editing, e la percezione del
tempo musicale frammentaria e non lineare, come se la moment form nascesse o comunque fosse enormemente ingigantita da
questo modo di lavorare sulla musica, che è in fondo anche il modo di lavorare
dell’arte del secolo, il cinema (almeno fino a pochi anni fa…): «In questo modo
la tecnica del tagliare i nastri [splicing techniques] non solo influenza la
percezione della continuità, ma favorisce la composizione di durate assolute
che prescindono dalla musica in esse contenute»[18].
Anzi, la tecnologia sembra favorire, a prescindere dalle tecniche di editing,
la considerazione delle durate in sé, cioè del tempo assoluto più che del tempo
esperito…
[1] S. Montefiori, Beach Boys
- Diventa realtà il sogno del disco perfetto, dal Corriere della sera del 31 ottobre 2011.
[2] Citazione presente in M.
Hertsgaard, A day in the life – La
musica e l’arte dei Beatles,
Baldini&Gastoldi, Milano 1995, p.255.e si trova originariamente in Revolution in the Head – The Beatles’
Records and the Sixties, , di Ian McDonald, First Estate 1994, p.1.
[3] Che seguì l’uscita del singolo Strawberry fields/Penny Lane, sebbene
non contenesse i due brani.
[4]
A. Ross, The rest is noise – Listening to
the Twentieth Centur [2007]y, Fourth Estate, London 2008, p.473. Come spesso accade nei libri di Ross, non ci sono
riferimenti bibliografici, né viene indicata la fonte di questa notizia.
[5] Ce lo racconta ancora Alex Ross.
[6]
J. Lennon, Playboy interwies, p. 18,
citato in M. Hertsgaard, A day in the
life…, p.142.
[7] M Lewisohn, Beatles – Otto anni a Abbey Road, Arcana editrice, Milano1990, p.
174. Una sintesi preziosa dei resoconti di tutte le sedute di registrazione del
gruppo.
[8]
Tutto il catalogo di canzoni dei Beatles è firmato dalla coppia
Lennon-McCartney, a parte quelle di Harrison e Starr, ma nonostante siano
firmate in coppia, è sempre chiarissima la paternità di ciascun pezzo, almeno
da un certo momento in poi, anche grazie ad una regola semplicissima e che
conosce pochissime eccezioni: ciascuno canta le proprie canzoni…
[9] M Lewisohn, Beatles…, p.174.
[10] J. Robertson, L’arte e la musica di John Lennon, Tarab
edizioni, Firenze 1995, p.37.
[11] J. Robertson, L’arte e la musica…, p.38.
[12] J. Robertson, L’arte e la musica…, p.38.
[13]
M. Lewisohn, Beatles…, p.183.
[14]
J. Kramer, The Time of music – New
meaning, New temporalities, New strategies, Schirmer Books, New York 1988,
pp. 66.
[15]
J. Kramer, The Time of music…, p.67.
[16]
J. Kramer, The Time of music…, p.67.
[17]
J. Kramer, The Time of music…, p.69.
[18]
J. Kramer, The Time of music…, p.72.
Belissimo articolo, denso di stimoli, suggestioni e riferimenti. Oggi lo condivido con i mei studenti. Grazie Gianluca!
RispondiEliminaO ancor meglio Gian-Luca
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