Alcuni princîpi per
l’insegnamento della composizione...
.Al termine di
questo primo cammino di riflessioni,
resta comunque l’interrogativo fondamentale: come posso io insegnante
rispettare e valorizzare il mondo specifico dell’allievo, non rendere muto il suo emisfero destro e
contemporaneamente comunicargli un artigianato
ed un mestiere?
Come posso rendere
l’insegnamento non solo della composizione, ma anche dell’armonia e della
musica in genere un cammino verso lo sviluppo della creatività,
dell’immaginazione e del pensiero divergente, un «avviare intimamente, per
favorire la disposizione creativa»[2],
per dirla con Klee?
Se continuo a
somministrare un insegnamento nozionistico e passivo, non c’è speranza. Se
quelle sono le regole dell’armonia e
si tratta solo di memorizzarle ed applicarle, per quanto lo si faccia
musicalmente, e creativamente, non si esce da questo vicolo cieco. Da questo
punto di vista, tutti i manuali di armonia sono uguali, eccellenti, ma adatti a
sviluppare solo un tipo di conoscenza,
solo un tipo di emisfero…. Quello
sinistro.
Vorrei cominciare
allora, prima di tutto, tenendo ben presente i principi della rivoluzione copernicana delle scienze pedagogiche, e riflettere su quanto dice
Rodari a questo proposito: «In un’impresa educativa il programma non dovrebbe
essere l’elenco delle cose che ci proponiamo di ottenere dai bambini, ma di
quello che dobbiamo fare noi per essere utili ai bambini. Dovremmo elaborare
regole per il nostro comportamento»[3].
In questi anni io
ed i miei colleghi siamo stati occupati e preoccupati a proporre, elaborare e
rivedere i programmi per i nuovi corsi accademici e pre-accademici. Cercando di
individuare i percorsi migliori e le prove d’esame giuste.
Ma forse non era
tanto il programma di studi quello sul quale avremmo dovuto focalizzare la
nostra attenzione, quanto piuttosto l’insieme di regole, o principi, o
linee guida, che noi insegnanti
dovremmo seguire nel momento in cui si incontra un allievo, e che
costituiscono i fondamenti del lavoro stesso di insegnante.
Queste sono allora
le mie personali conclusioni…
Il principio primo dovrebbe essere quello di
mettermi in contatto con l’allievo, attraverso l’ascolto, l’interesse, e
il rispetto per tutto quello che
riguarda il suo mondo interiore. Raramente si chiede ad un allievo cosa ama, e soprattutto poi ci vuole tempo
perché l’allievo si apra e lo riveli all’insegnante. E’ necessario quindi che
l’insegnante persegua questo punto con convinzione e costanza. E l’allievo deve
sentirne, appunto, tutta l’attenzione ed il rispetto, l’interesse e l’affetto.
A volte ci vogliono mesi perché un allievo si apra e ci riveli le sue passioni,
o ci faccia ascoltare le sue musiche. Ma se non dimostriamo rispetto, apertura
e interesse, quel momento non arriverà mai.
Perché dovrebbe
essere ininfluente, ad esempio, che un allievo che si iscrive al corso di
composizione, abbia una passione per la tehcno?
Ed io insegnante, posso permettermi il lusso di non saperlo?
La risposta per me
è assolutamente negativa: quel lusso non posso permettermelo. Perché quella sua
passione, quel suo amore, oltre a parlarmi di lui, può essere il sentiero che
mi conduce, anzi, che ci conduce ad ottenere dei risultati dal punto di vista
didattico, e questo è il secondo principio: la ricerca del significato. In quello
che un allievo fa ha il diritto di
trovare una motivazione profonda, un significato, appunto. E questo può
ottenerlo soltanto relazionandosi al suo mondo interiore. Di qualunque natura sia. Non si può fare del razzismo culturale in questi ambiti. Non possono esserci cose
giuste da amare e cose sbagliate.
Da bambino mi ero
innamorato di un fumetto. Un fumetto nuovo, che ho seguito dal primo numero, e
nel cui mondo ho vissuto per più di tre anni, completamente assorbito dalle sue
storie e dai suoi personaggi. Era, in tutto e per tutto, una grande passione.
Un amore. Che tuttavia nessuno ha mai preso seriamente in considerazione. Né
mia madre, preoccupata che mi facesse venire degli incubi notturni. Né mio
padre, che vedeva solo il rischio di una contaminazione
del mio intelletto. Né il mio maestro. Ma proprio quest’ultimo avrebbe dovuto
sfruttare questa mia passione. Perché
amore significa ricordare ogni singolo dettaglio, comprendere, essere curiosi,
e da lì muovere per considerazioni più generali e profonde.
La prima
riflessione sulla forma, sulla narrazione, sul ritmo di una storia e
sull’evoluzione di un personaggio, la scoperta tanto dell’amore per la coerenza
e la linearità, quanto dell’insofferenza invece per la discontinuità, le ho
fatte proprio su quel fumetto. Se qualcuno avesse sfruttato quella passione,
avrei evitato di pascolare pigramente nelle istituzioni scolastiche per tanti
anni, alla ricerca di un senso, e di essere come un ruminante che mangia erba
già masticata (per usare l’immagine citata di Boulez), nell’apprendere.
Nella ricerca del
significato poi, l’apprendimento dovrebbe coinvolgere l’essere tutto e
mantenere una componente affettiva. Come ho detto, è necessario dare un ruolo prioritario alle
emozioni, in tutti i processi cognitivi.
E questo potrebbe essere il terzo principio. Provare a mettere le proprie emozioni in quello che si fa, imparare ad
esprimerle attraverso i suoni e attraverso la costruzione della forma.
Ma parallelamente
al ruolo delle emozioni è indispensabile conservare un ruolo altrettanto
prioritario alla libera immaginazione,
alla creatività, al gioco, al divertimento. Come ho detto, ogni manuale dovrebbe avere le sue pagine
bianche per lasciar posto alle scoperte e alle scelte individuali di ogni
singolo allievo. Dargli la possibilità di inventare e di creare, e così
facendo di impadronirsi profondamente del materiale che sta usando. E questo,
il gioco creativo, sempre comunque, potrebbe
essere il quarto principio. E sarebbe magnifico riuscire a creare un
manuale nuovo ogni anno, con i frutti di questo gioco creativo, insieme agli
allievi. Ma naturalmente un insegnante avrebbe bisogno di nove vite… Oppure
dovrebbe alternare, ad un anno pieno di lavoro con gli allievi, un anno di
studio e di ricerca per rigenerarsi e per raccogliere ciò che si è imparato
insegnando. E questo sarebbe possibile, forse, in uno dei mondi dell’Astronomia fantastica …
Il
quinto principio dovrebbe essere quello di ricordare sempre che il sapere, i concetti astratti, il
nozionismo, andrebbero somministrati con prudenza e attenzione. La musica
ha a che fare prima di tutto col suono e con l’ascolto. Dosi eccessive di nomi
e concetti astratti, soprattutto nei primi anni, non fanno che appesantire e
spegnere le facoltà di apprendimento dell’allievo. Il delicato equilibrio tra
conoscenza e inconsapevolezza, tra ricordare e dimenticare è molto importante,
soprattutto nei primissimi anni. Il nome delle specie delle settime, ad
esempio, o dei vari tipi di sesta aumentata, sono nozioni sostanzialmente
inutili all’inizio, o almeno fintantoché l’allievo non abbia fatto esperienza
di quelle sonorità, ed abbia imparato a conoscerle ed interiorizzarle. Proprio
per questa ragione l’ascolto,
l’ascolto in classe in modo particolare, è importantissimo, e non andrebbe mai
trascurato. Ma dovrebbe costituire al contrario uno di pilastri dell’insegnamento musicale. Non solo. Ma l’ascolto
di alcuni capolavori scelti insiemi dal docente e dall’allievo, un ascolto
continuato e ripetuto per tutto l’anno
scolastico, fino ad arrivare ad una conoscenza piena ed approfondita di quei
lavori, dovrebbe costituire la base principale di un cammino di apprendimento,
e questo, potrebbe essere il sesto principio.
Infine, in seguito
all’ascolto attento e alla frequentazione continua e approfondita di un numero
limitato ma eterogeneo di lavori, si dovrebbe predisporre ad un atteggiamento
di responsabilità ed autoregolamentazione nei confronti delle
regole e delle leggi, e questo potrebbe essere il settimo principio.
Naturalmente la
prima cosa che viene da osservare, è che, per come sono organizzati oggi i
nostri corsi di studio, non c’è il tempo e la possibilità per questo tipo di
approccio all’insegnamento. Come posso soltanto cominciare ad applicare uno di
questi principi, con un corso di trenta ore o addirittura con uno di quindici?
Ma è necessario
prima decidere la forma esterna dei corsi, o prima il loro contenuto? Può un
calzolaio costruire prima le scarpe, a prescindere dal piede che andranno a
calzare, e poi, se queste non si adattano, adattare il piede ad esse, con
conseguenze dolorose e castranti per chi le indossa?
Naturalmente è un
paradosso, però…
C’è da dire
tuttavia che, per quanto la riforma dei Conservatori ne abbia snaturato
notevolmente l’anima di scuole artigianali, di laboratori d’arte, di vere e
proprie botteghe rinascimentali che nei casi migliori creavano rapporti lunghi
e proficui tra allievi e maestri, la possibilità ed il tempo di instaurare rapporti
duraturi resta ancora. E spesso, più che una questione di tempo, è una
questione di disposizione interiore…
Inoltre il compito
forse più difficile a questo punto, sarebbe quello di tradurre in pratica
questi principi. Ma non è tra le finalità di questo libro quello di proporre
degli esercizi concreti. Ai quali sarebbe giusto dedicare un vero e proprio Esercizi per la Grammatica dell’armonia
fantastica…
Anche se poi va
detto che, se tali esercizi devono aderire alla specificità di ogni singolo
allievo, è necessario che cambi radicalmente il modo di pensare gli esercizi
stessi. E per farlo ci vorrebbe «lo sforzo e l’esperienza di molti musicisti»[4].
Anzi, più che di esercizi, sarebbe necessario «l’individuare alcuni ‘accessi’ attraverso i quali gli insegnanti siano
incoraggiati a muoversi verso una nuova impostazione dei saperi…»[5].
In fondo però è
anche vero che si può tener conto dei principi enunciati con qualsiasi tipo di
lavoro e di compito. Anche nella
realizzazione di un semplice basso dato vi possono essere infinite possibilità
di lasciare spazio alla fantasia, alla creatività, all’espressione delle
proprie emozioni e del proprio mondo interiore. Animum debes mutare non caelum[6]: in
questo caso deve mutare la nostra disposizione nei confronti dell’apprendimento,
più che quello che studiamo; e da archivisti
del sapere, riceventi passivi di una serie di informazioni, che dobbiamo
semplicemente archiviare e conservare, dovremmo trasformarci in giardinieri, o in cuochi, cioè in coloro che attraverso la cura, l’amore e lo studio,
trasformano e sviluppano l’elemento dato (un seme, degli ingredienti, il
sapere…), in qualcosa di profondamente diverso, che gli appartiene intimamente.
E lo fanno attraverso un processo che deve essere gioioso, giocoso e creativo.
Sempre, «anche se sono in ballo le matematiche severe»[7].
[1]
G. Rodari, Il maestro Garrone, in Favole
al telefono, Einaudi, Torino, 1962, pp.128-129.
[2]
Citato in J. Spiller, Genesi degli
scritti pedagogici, Saggio introduttivo a P. Klee, Teoria della forma e della figurazione – Volume I: Il pensiero immaginale, Mimesis,
Milano 2011, p. XIX.
[3]
G. Rodari, Dalla parte del bambino, in
Scuola di fantasia, a cura di Carmine
De Luca, Editori Riuniti, Roma 1992,
p. 61, citato in M. Piatti, E.
Strobino, Grammatica della fantasia
musicale, FrancoAngeli, Milano 2011,
p. 17.
Il corsivo è mio.
[4]
P. Hindemith, The craft of musical composition, Schott, London 1942, p. 9.
[5]
Lo dice Edgar Morin a proposito de I sette saperi necessari all'educazione
del futuro.
[6]
L. A. Seneca, Epistole a Lucilio,
XXVIII.1, CIV.8, Zanichelli, Bologna, 1973: «è l’animo che deve mutare, non il cielo».
[7]
G. Rodari, Grammatica della fantasia
musicale – Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 1973, p. 172.