Gian-Luca
Baldi
Preghiera
al nulla - A proposito de Un posto pulito, illuminato bene
Deve
essere passata la mezzanotte da un pezzo, e anche per bar e locali notturni è
ora di chiudere. La notte profonda è lo sfondo sul quale si muove il racconto
di Hemingway, il momento in cui la polvere del giorno si deposita, catturata
dalla rugiada («di notte la rugiada componeva la polvere»), insieme al tempo
che sembra fermarsi e tutto si fa silenzioso.
E’
un’immagine molto forte e carica di significati quella nascosta nel secondo
paragrafo, un’immagine che rimanda alla filosofia Zen: la polvere che si
deposita sul fondo è un momento di chiarezza, di disvelamento,
un’illuminazione. Questo momento della notte diviene quindi l’ora della verità.
Protagonisti
di questa piéce, in un palcoscenico che ritaglia il proprio spazio di luce
all’interno del nulla della notte,
come un’oasi nel deserto, sono due camerieri stanchi ed un vecchio, che
colleziona brandy dopo brandy.
Vi sono
poi due comparse (un soldato e una
ragazza che passano nella notte), e – mentre il vecchio esce di scena a metà
del breve racconto – compare un nuovo personaggio: il cameriere più anziano
diviene a sua volta cliente di una bodegas, e un barista gli versa un ‘caffè
piccolo’.
Nella
pur semplicissima vicenda narrata vi è dunque un piccolo sviluppo e un cambio di scena.
Gradualmente,
nella seconda parte, l’attenzione si concentra sul cameriere più anziano, che
in qualche modo viene a sostituirsi al vecchio. Li lega una vicinanza istintiva
nel sentire, nel condividere un malessere senza nome e il rifuggire dal momento
in cui si andrà a dormire. E così come al primo locale si sostituisce la
bodegas, meno luminosa e pulita, così al vecchio si sostituisce il cameriere (simmetria dello scambio).
Significativa,
nello scorrere di queste solitudini, la coppia che passa, fuggevolmente. Sembra
un dettaglio da nulla, eppure non lo è. In questo nulla, in questo vuoto angoscioso, quel soldato sembra essere l’unico
ad avere «quello che cerca». Ma è solo un attimo.
Il
vecchio ha cercato di uccidersi la settimana prima, dicono.
Perché?
Era
disperato.
Disperato
di che cosa?
Di
niente.
Come
fai a sapere che non era niente?
Ha
un sacco di soldi.
Di
niente. Il male di vivere soltanto, per il quale non si conosce cura, come dice
Beckett.
Che è un
altro esperto e narratore del nulla. Ma la cui inclinazione metafisica è sempre
esibita, in primo piano, e non apparentemente ‘occasionale’ e nascosta come in
Hemingway. I suoi personaggi si muovono costantemente sospesi sul vuoto, e
circondati dal niente. Creando un luogo in cui necessariamente ogni singolo
oggetto, ogni singolo gesto si carica di fortissimi significati allegorici.
Ma in
Beckett, sempre così puritano e timoroso della fisicità, rispetto ad un
Hemingway che invece nella vita si tuffa
e si immerge, non c’è il brandy a simboleggiare quei momenti di oblio, di
gioia e di piacere che la vita ci offre, e con i quali si cerca di allontanare
da sé il momento della partenza, il momento in cui bisognerà lasciare il posto
pulito, illuminato bene. Egli sembra fronteggiare il nudo nulla, e basta.
Questa
sospensione nel buio e nel nulla ricorda anche per molti versi alcune tematiche
ricorrenti in Tim Burton (in Beetlejuice,
1988, ad esempio, e soprattutto in The
Nightmare before Christmas, 1993), e
che torneranno nel film da lui prodotto e tratto dal romanzo di Neil Gailman, Coraline e la porta magica (2009).
Alzando
il capo sembra dunque impossibile all’uomo moderno di scorgere il cielo
stellato sopra di lui, segno tangibile di una divina armonia che regola
l’universo, ma solo e soltanto il nulla.
Eppure
non credo che si possa ritenere per questo Un
posto pulito illuminato bene un racconto nichilista, un inno al nulla e
alla vanità di tutte le cose[1].
Così come in un fotografo di guerra, la testimonianza degli orrori non può
essere letta come compiacimento o manifesto di crudeltà e cinismo.
Questo
racconto ci permette invece di vedere con chiarezza, e quindi di comprendere,
ciò che i nostri occhi ‘miopi’ possono a volte solo intravedere, come immagini
sfocate e confuse: quel fiume di vuoto e vanità che sembra scorrere ai bordi
della nostra vita, e che sembra sempre sul punto di risucchiarci. E che rischierebbe
di restare una macchia caotica nell’animo che crea solo sgomento e smarrimento,
paura e angoscia, se non inforcassimo gli occhiali della letteratura, e lo scorgessimo
finalmente e nitidamente, come insieme di figure chiare e riconoscibili,
ricomposte in un tutto armonioso, nella bellezza di un racconto. Quella
bellezza che, contemplata quando eravamo ancora solo anime, come dice Platone, ricerchiamo
e bramiamo nel corso di tutta la nostra vita mortale. E che può aiutarci ad
arrivare alla verità e al suo disvelamento, come si direbbe nella dottrina Zen.
Postfazione
Se avessimo
dovuto avventurarci in un’analisi scientifica
- linguistica, stilistica e formale - del racconto di Ernest Hemingway, non avremmo
potuto fare a meno di metterlo a confronto con gli altri quarantotto racconti
della raccolta, individuando i temi ricorrenti, le analogie o le discrepanze
stilistiche, il ritmo o i ritmi, la presenza o meno di un disegno complessivo,
mettendo poi il tutto in relazione con l’Hemingway romanziere, per tracciarne
un profilo di narratore e protagonista della prima metà del XX secolo.
Limitandoci
alle poche pagine de Un posto pulito illuminato
bene, per quanto situato nel cuore del volume, e ipotizzando di ignorare
tutto il resto, non abbiamo potuto che indulgere ad un’analisi più libera,
poetica direi e quasi metafisica...
Edward Hopper - Un posto pulito, illuminato bene
[1] Come ha fatto ad esempio il mio amato
e compianto nonno Guido Maria Baldi nel
suo Tempo amaro (G. Volpe, 1971)