Gian-Luca Baldi
Addio al Novecento
Osservazioni in merito al Ritratto
di Fabrizio De Rossi Re di Mario Baroni
Le tematiche ed i problemi
affrontati da Mario Baroni nel “Ritratto di Fabrizio De rossi Re” mi appaiono
particolarmente importanti oggi, e per questa ragione desidero aggiungere delle
osservazioni al suo articolo. Non tanto sulle conclusioni, che condivido
pienamente:
dire
che la musica di De Rossi Re è post-moderna o neo-tonale, è un non senso
storico e corrisponde solo a una sorta di pigrizia terminologica di chi
continua a usare parole vecchie perché non ha saputo inventarne di nuove e più
adeguate.
quanto sul modo in cui si giunge a
tali conclusioni.
Premetto che sono e mi sento
profondamente un figlio del Novecento (sono nato nel 1961), e forse proprio per
questo prendo così seriamente a cuore le questioni estetico-filosofiche che
stanno alla base del mestiere del comporre. Ed inoltre che non appartengo a
coloro che hanno sempre aspramente criticato il Novecento, o che hanno preteso
e pretendono tutt’ora di ignorarne l’esistenza, saltandolo a piè pari come
fosse un semplice ostacolo sulla via. Non solo mi sono dedicato con cura ed
amore ai repertori atonali della prima parte del Novecento, per fare solo un
esempio (grazie anche agli strumenti fornitimi dall’analisi insiemistica,
approfondita negli Stati Uniti), studiando per anni Webern, Berg, e Schoenberg,
in particolar modo quello del Libro dei
giardini pensili, del Pierrot e
di Erwartung. Ma sin dai primi passi
negli studi della composizione ho ascoltato e seguito con entusiasmo i grandi
compositori del secondo dopo guerra, come Ligeti e Berio, Kurtag e Maderna.
Tuttavia, proprio a causa di questa vicinanza e di
questo rispetto per tutto un repertorio, ritengo che sia giunto ormai il momento di prendere pieno e consapevole
congedo dal Ventesimo secolo, e in questo breve articolo vorrei ribadirne le
ragioni.
L’orecchio
‘medio’
Scrive Baroni che certi giudizi
nascono da «una sorta di pigrizia terminologica di chi continua a usare parole
vecchie». Giustissimo,
ma non credo che oggi manchino soltanto i termini adatti per descrivere la
realtà che ci circonda, bensì troppo spesso anche gli stessi strumenti teorici
e gli stessi concetti, indispensabili a comprenderla.
Tuttavia non si tratta di una
novità. Osservando la partitura della Missa Si
la face ay pale di Dufay e ascoltandone la musica, ho sempre pensato che il
compositore fiammingo già possedesse nel 1420 una percezione chiara degli
accordi e della loro concatenazione, mentre la teoria musicale avrebbe
impiegato più di due secoli per spiegare e dare fondamento teorico a quelle
intuizioni.
Stiamo vivendo in fondo qualcosa di
simile a quello che accadde più o meno nella seconda parte del Trecento. Il
processo tuttavia è con tutta probabilità ancora più complesso, ed è
impossibile prevedere a cosa porterà. Se, ad esempio, verrà a crearsi un nuovo
‘linguaggio universale’ della musica, come nel Quattrocento, o come nel
Sei-Settecento.
Di fronte a questo processo siamo
smarriti, e assolutamente poveri di sostegni bibliografici, teorici e
metodologici. Possiamo solo basarci sull’intuito, e sull’esperienza,
registrando quello che ogni giorno scopriamo a contatto con le generazioni più
giovani, e parallelamente quello che ogni giorno sentiamo venirci dal di
dentro, come frutto dell’incontro con gli anni che stiamo vivendo.
Anche per questo è molto difficile
definire oggi quali siano le caratteristiche di ‘questo orecchio medio’ nel
quale sarebbe «immersa la musica di De Rossi Re». Di certo si tratta di un
orecchio diverso da quello di vent’anni fa, e alla cui formazione hanno
contribuito non soltanto tutte le musiche che ascoltiamo, per lo più
involontariamente, in dosi massicce. Ma che è stato formato soprattutto dal nostro
nuovo modo di vedere la realtà, dal nostro nuovo senso del tempo, e da un
fenomeno tanto misterioso quanto potentissimo ed incontrollabile, quel pendolo
della storia che da secoli e secoli oscilla permanentemente tra ‘propensione’
alla dissonanza e ‘propensione’ alla consonanza.
Oggi siamo in una fase totalmente
contraria a quella del secondo dopo guerra, una fase in sui si sta tornando ad
una sensibilità ‘panconsonantica’, come la scuola inglese di fine Trecento. Una
sensibilità quasi ‘vegana’, di estrema attenzione, quasi di timore, nei
confronti degli urti e delle asprezze. Vent’anni di insegnamento della
composizione, vent’anni di ampi spazi dedicati all’ascolto nelle mie classi dei
repertori più diversi, in luoghi geografici diversi, da Bari, a Roma fino a Castelfranco
Veneto, mi hanno convinto che questa onda potente sta compiendo il suo corso. I
ragazzi si smarriscono oggi di fronte ad un tessuto dissonante marcato, ne sono
come impauriti, lo rifuggono.
Tuttavia l’orecchio medio è come un
lago instabile, le cui acque scivolano verso nord o verso sud a seconda dei
movimenti imperscrutabili della terra. Sta al compositore dargli una direzione
precisa, forgiarlo ed educarlo, pur nel rispetto della sua ‘essenza’. Intendo
dire che si può cercare di inseguirlo ed adularlo. Oppure si può guidarlo, e
stargli un po’ avanti, senza fuggire in avanti e finire negli spazi siderali e
nel vuoto.
Questo è quello che hanno fatto i
grandi compositori di sempre. D’altronde per tornare al concetto stesso
d’avanguardia, se il drappello che si spinge in avanti per perlustrare e
monitorare le linee nemiche perde completamente i contatti con tutto il resto
dell’esercito, è la sua funzione stessa che viene meno e perde di senso.
Basterebbe pensare a ciò che avveniva alla fine
dell’Ottocento: le musiche di Debussy, di Ravel o di Strauss, per esempio, per
non parlare di Respighi e di molti altri, erano immerse nella tradizione
ottocentesca e su quella si basavano per dire le cose nuove che a quei
compositori stavano a cuore.
Anche questa affermazione è
indubbiamente indiscutibile, ma mi preme sottolineare che i grandi maestri e
compositori citati da Baroni non erano certo ‘accarezzatori’ delle orecchie del
pubblico. Questo per me è un punto fondamentale.
Non c’era niente di
‘compromissorio’ nelle loro scelte linguistiche. Erano scelte rivoluzionarie,
visionarie ed innovative. Ma compiute ‘in equilibrio’. Erano nuove piante che
crescevano nel giardino della tradizione, non pretendevano di essere cactus nel
deserto. Il concetto di ‘innovazione’ come rivoluzione radicale’, come
sconvolgimento alle radici dell’ordine costituito, come tabula rasa di ciò che
esisteva prima, è un concetto tipico delle avanguardie del secondo dopo guerra,
e ne è in qualche modo un sintomo patologico ed allarmante. Il segno di una
perdita di senso dell’arte stessa, e di crisi profonda della società
contemporanea.
Il linguaggio di Ravel, ad esempio,
punta culminante di un’intera nazione che intraprese già all’inizio
dell’Ottocento un lungo e interessantissimo viaggio per uscire dal linguaggio
tonale, era un linguaggio radicalmente nuovo, che portò il vecchio linguaggio
tonale ad una completa trasformazione, traghettandolo nel nuovo secolo, il
Novecento. Non ci si lasci ingannare dalla sua elegante e gradevole eufonia. Quello
di Ravel si dimostrò un linguaggio duttile e ricco, con una tavolozza di
possibilità espressive che andavano dalla tonalità complessa e cromatica della
scuola francese, al linguaggio modale novecentesco fino al linguaggio atonale o
addirittura ‘pre-minimalista (nelle Chansons
Madécasses e nei Trois Poèmes de
Mallarmé, ad esempio), per il quale è stato coniato un nome, che ancora qui
da noi in Italia fa fatica ad imporsi, ma che la musicologia internazionale ha
universalmente accettato: la tonalità
modale. Il termine è stato coniato da Jacques Chailly (Chailly, 1960, p. 5),
ma per comprenderne profondamente la natura si veda soprattutto il testo
fondamentale di Henri Gonnard (Gonnard 2000).
Ora, la strada francese, che vedrà
un altro gigante del Novecento all’opera, come Messiaen, portare il testimone
di questa lingua nella seconda parte del secolo, non compie un’opera di
‘ripudio’ ma di integrazione. Vale a dire che non bandisce definitivamente le
sonorità tradizionali – quegli accordi maggiori e minori che Hindemith affermò
essere universali irrinunciabili della musica «come la pioggia, la neve ed il
vento» (Hindemith, 1942, p.22), il che gli valse l’ostracismo di tutta l’avanguardia
post-bellica – ma le integra con un’ampissima tavolozza di sonorità nuove.
D’altronde lo stesso Schoenberg (Schoenberg 1922, p. 207), in tutti i suoi
scritti, ha sempre affermato che il rinunciare agli accordi tradizionali era
solo una necessità momentanea, volta a verificare se i nuovi materiali ‘ce la
facevano da soli’.
Poi, nel secondo dopo guerra,
questa messa al bando delle ‘sonorità tradizionali’ e di tutto ciò che aveva
una parentela ‘triadica’, divenne definitiva con un gruppo di compositori che
occupò interamente l’attenzione della musicologia, ma non quella della storia
né tanto meno del pubblico. La musica sembrò quindi divenire ‘pandissonantica’,
così come, in maniera inversa, alla fine del Trecento, e dopo le aspre durezze
di Machaut, era divenuta panconsonantica con Dunstable.
L’era
della pandissonanza
La ‘pandissonanza’ – il cui arco
vitale limiterei tra il 1946 e il 1985, l’anno delle dichiarazioni di Ligeti in
La mia posizione di compositore oggi (Restagno
1985, p. 3) si reggeva su due premesse: un atteggiamento di estrema rigidezza,
direi quasi di furore ideologico, di cui possiamo tuttavia comprendere e
scusare le ragioni: la necessità di ricostruire sulle ceneri della guerra un
mondo nuovo, di ripartire dall’anno zero non solo della musica ma dell’umanità
tutta; e la convinzione che quello che
allora pareva ‘pandissonanza’ sarebbe ben presto divenuto piacevole e naturale,
come sostiene Karlheinz Stokhausen nel corso dell’ottava puntata di C’è musica
& Musica (un programma affidato a Luciano Berio, 12 puntate in prima
serata del 1972) dedicata proprio alla musica contemporanea:
«Io
stesso sono padre di sei bambini, che fanno parte di una generazione venuta
dopo e che evidentemente si trova spontaneamente a suo agio nel mondo moderno e
vuole sentire questa musica e trova naturalissimo ascoltarla».
Le premesse ideologiche di quelle
scelte oggi non esistono più o comunque non hanno nessun fondamento. La
speranza di rifondare da zero non solo la musica e l’orecchio umano, ma
l’umanità tutta, si è dimostrata purtroppo una mera utopia, se non addirittura
un fallimento. Le condizioni storiche, politiche, filosofiche ed estetiche,
sono incredibilmente mutate da allora. E quegli anni successivi alla fine del
secondo conflitto mondiale sembrano oggi, per molti versi, più lontani da noi
che le guerre napoleoniche.
Il cammino della storia poi, per
quanto riguarda la dissonanza, ha preso tutta un’altra strada. Le nostre
orecchie non solo non si sono abituate agli urti, ma sembrano comprenderli e
metabolizzarli sempre meno.
Diciamo quindi che quelle scelte,
uniche in tutta la storia della musica occidentale, che con grande scommessa e
grande ardire, bandivano non solo le consonanze dal linguaggio musicale ma la
dialettica stessa ombra-luce, anzi l’idea stessa di colori, di varietà e
contrasti, sono ormai, completamente e definitivamente superate.
Naturalmente ci saranno ancora
coloro che sostengono che tale linguaggio ha ancora molto da dare e da dire. Di
epigoni entusiasti ce ne saranno sempre. Come quel Robert Fuchs di solida
ortodossia brahmasiana che vinse il Premio Beethoven nel 1881, lo stesso
concorso che convinse Mahler si a darsi definitivamente alla direzione
d’orchestra, non avendovi ottenuto alcun riconoscimento.
La musica di Fabrizio De Rossi Re
non solo e non tanto mantiene un legame con l’orecchio medio, quello stesso
sapiente equilibrio e giusto distacco che tutti i grandi compositori del
passato hanno sempre mantenuto, ma parla della realtà nella quale è immersa.
Racconta dei nostri anni, delle nostre contraddizioni, delle impurità, del
multiculturalismo e perfino della caoticità del mondo contemporaneo nel quale
viviamo. E cos’altro fare un linguaggio se non essere ‘contemporaneo’,
sintonizzarsi e armonizzarsi col mondo nel quale vive?
Al contrario tutte le musiche della
post-avanguardia oggi suonano ‘vecchie’, fuori posto. Non solo la loro
pandissonanza ma anche la loro ‘purezza’ le colloca in un passato remoto nel
quale non possiamo più riconoscerci. Si avverte quell’organicità germanica,
quella pignola attenzione alle altezze e ai sistemi per ricavarle e metterle in
rapporto le une con le altre che hanno denotato tutta una civiltà musicale ma
che ormai sono estinte come lo sono i dinosauri.
Quando ascolto i Due notturni con figura di Fedele, il
primo dei quali per sei interminabili minuti (ai quali segue un bizzarro
episodio elettronico alla ‘Pink Floyd’) reitera quella manciata cromatica di
altezze secondo procedimenti ripetuti innumerevoli volte nell’ultimo secolo,
con la sola differenza di una spazializzazione che solo in un’esecuzione dal
vivo si può cogliere, avverto il lavoro di un grande artigiano della musica, di
un abile rifinitore e maestro di tecniche antiche, ma che è ormai avulso dalla
contemporaneità. Non è un caso che abbia recentemente dichiarato che con la
morte di Boulez sia morto il Novecento. Verrebbe da dire: “Egregio maestro
Fedele, il Novecento è morto trent’anni fa e non se n’è nemmeno accorto!”.
E qui sta il paradosso della
post-avanguardia: i figli di coloro che hanno fatto la rivoluzione, di quegli
indomiti ‘guerrieri’ che salirono sulle barricate e pagato col sangue le loro scelte coraggiose, sono finiti ad
essere impiegati dei piani alti del ministero della conservazione e
dell’accademismo.
Pensare che De rossi Re sia un
neo-tonale e si schieri tra coloro che si oppongono al corso inevitabile della
storia, mentre Fedele sia un avanguardista ed innovatore è come ritenere che Beethoven
nel 1821 fosse un retrogrado perché aveva inserito la fuga nella sua 110, non
comprendendo cioè come la fuga nelle mani di Beethoven fosse divenuta qualcosa
di completamente diverso che prendeva e dava luce nuova ad una forma- sonata
ormai irriconoscibile.
Al contrario, le musiche di De
Rossi Re, e di altri compositori che parimenti si sono allontanati dalle
vecchie avanguardie, possono piacere o meno, reputarsi a volte deboli o
eccessivamente piacevoli e ‘graziose’, ma riescono ad avere la sincerità e la
profondità di parlare all’oggi, con tutte le sue contraddizioni. In esse c’è
l’eco del nostro mondo contemporaneo, e facendosene specchio, ci aiutano a
capirlo meglio e a capire noi stessi. Sotto l’ingannevole apparenza di
recuperare vecchi stilemi del passato procedono invece in avanti. Osano con coraggio,
fanno opera di sintesi e armonizzazione.
Il problema è che non sempre si
hanno gli occhiali per accorgersene e che la teoria musicale, la musicologia,
la stessa teoria compositiva, non hanno ancora prodotto quegli strumenti per
vedere le novità di cui sono portatori. Ma vedono solo ciò che hanno imparato a
vedere cento anni fa e non altro. E’ tempo invece di rinnovare le nostre lenti
per guardare alla realtà con sempre maggiore consapevolezza e acutezza.
Gian-Luca
Baldi (Bologna, 1961), è un compositore, scrittore,
didatta e saggista. Titolare della cattedra di composizione presso il
conservatorio di Castelfranco Veneto, è autore di oltre una sessantina di
composizioni, tre romanzi e decine di saggi e articoli, oltre a diversi libri
di teoria musicale e didattica. Collabora dal 2014 con la rivista «Prometeo»
della Mondadori, e dal 2015 vi tiene la rubrica ‘De Musica’.
Tra i suoi testi più importanti:
Introduzione
alla modalità e al pensiero musicale moderno, Berbèn, Ancona
2002.
Grammatica
dell’armonia fantastica – Appunti e Interludi, Anicia, Roma
2012.
Grammatica
dell’armonia fantastica – Quaderni di lavoro, Anicia, Roma
2014.
Cronodiànoia
o del realismo interiore – Proposte per la musica del XXI secolo,
Armellin, Padova 2015.
Bibliografia
J.
Chailly, L’imbroglio des modes,
Alphonse Leduc, Parigi 1960.
H.
Gonnard, La musique modale en France de
Berlioz a Debussy, Edition Champion, Parigi 2000.
P.
Hindemith, The Craft of Musical
Composition, Book I, Schott, London 1942.
E. Restagno (a cura di), Ligeti, EDT, Torino 1985.
A.
Schoenberg, Twelve Tone Composition (1923) in Style and idea, University of California Press, Berkeley 1975.