Tempi
difficili nella Città grigia
Appunti e idee per il testo di
una fiaba in musica per il terzo Millennio
da Charles Dickens a P. K. Dick,
attraverso Italo Calvino e Gianni Rodari
di
Gian-Luca Baldi
A Gianni Rodari
nel centenario della sua nascita
Introduzione
Giunti all’inizio degli anni Venti del Duemila,
volgendo uno sguardo retrospettivo ad almeno una parte dell’immaginario
fantastico degli ultimi decenni nella letteratura e nel cinema, due filoni sembrano
a mio avviso predominanti: una continua rielaborazione e riproposizione -
mediata e riletta in innumerevoli forme diverse dal linguaggio fantastico - del
secondo conflitto mondiale, divenuto l’archetipo per eccellenza della lotta del
bene contro il male (Il signore degli
anelli di J.R.R. Tolkien e Harry
Potter di J.K. Rowling, in primis); e una visione negativa del futuro (le
due tematiche possono anche intrecciarsi), che riguarda tanto la fantascienza “colta”
da Asimov a P. K. Dick[1],
quanto, ad esempio, le saghe di supereroi che hanno dominato la settima arte
nell’ultimo decennio (in particolare gli Avengers
della Marvel e gli analoghi cicli della DC Comics), dove la visione del futuro
diviene addirittura apocalittica[2].
Il linguaggio fantastico può dare un contributo
importante alla comprensione dei grandi eventi storici del passato e in una
maniera del tutto differente al linguaggio realistico: può entrare in
profondità negli animi delle persone, raffigurando dei prototipi umani “universali”
e perfettamente comprensibili e memorizzabili. Sia Tolkien che la Rowling, ad
esempio, ben descrivono a fondo la natura del male e di come esso si propaghi
all’inizio per debolezza e vigliaccheria, per miseri tornaconti personali e
avidità, o per ottusa miopia. È quindi non solo comprensibile ma anche necessario che si senta la
necessità di rielaborare, riconsiderare, metabolizzare e attualizzare un evento
drammatico e catastrofico come la Seconda guerra mondiale in queste opere, e
non ha nessuna importanza quanto sia più o meno consapevole questa operazione. Per
quanto riguarda il secondo punto invece, mi colpisce constatare che l’uomo di
oggi non riesca a rivolgere lo sguardo al futuro con fiducia e speranza[3].
E questa incapacità purtroppo ha conquistato soprattutto i più giovani, che si
mostrano impauriti e confusi nel proiettarsi in un futuro che sono convinti sarà
peggiore del presente. Viene inevitabilmente da domandarsi allora come potrà
mai essere migliore il futuro se non riusciamo neanche ad immaginarlo tale? Immaginazione: ecco il punto. Immaginare
significa creare, «una forte immaginazione crea
l’evento» dice Montaigne (Montaigne
2017, p. 88)[4]. Il mondo che ci circonda
ne è una dimostrazione, e per l’Homo
sapiens[5] è sempre stato così: immaginare ciò che ancora non c’era per
renderlo possibile e reale e cambiare così il mondo e avere una vita migliore.
Ma se noi non crediamo più oggi in questa facoltà, o se rischiamo che essa
entri in sofferenza e “deperisca”, o se semplicemente non riusciamo più ad
usarla per guardare avanti e proiettarci con fiducia positivamente nel futuro,
chi costruirà il nostro futuro per noi?
1.
L’ineludibile necessità della
fantasia
Due scrittori italiani del
Novecento hanno lasciato un’eredità importante che può esserci oggi di grande
aiuto per recuperare un “sogno di futuro”, per la chiarezza e l’acutezza della
visione dell’uno; per l’entusiasmo e la fiducia nella possibilità di una
società migliore nell’altro; per il credere fermamente entrambi
nell’immaginazione e nel linguaggio fantastico, e soprattutto, infine, per
averli sostenuti con forza in anni ad essi ostili. Sto parlando di Italo
Calvino e Gianni Rodari[6]. Entrambi giungono alla scrittura
fantastica provenendo da altri mondi, e sebbene agissero in ambiti del tutto differenti,
ambiti i cui confini sono oggi fortunatamente molto più intrecciati e indistinti
di allora (letteratura alta o nobile e letteratura per l’infanzia), sentirono
ad un certo punto della loro carriera l’esigenza di chiarire ed esplicitare le
ragioni delle loro scelte. Rodari nel 1973 con la Grammatica della fantasia, i cui contenuti approfondiremo tra poco.
Calvino, che già nella prefazione alle Fiabe
italiane Calvino lascia intendere il suo modo di concepire la narrazione
fantastica - «Le fiabe sono vere. […] sono il catalogo dei destini che possono
darsi ad un uomo e a una donna […], l’infinità
possibilità di metamorfosi di ciò che esiste[7]»
(Calvino 1956, p. XVIII) - solo poco prima di morire, con le Lezioni americane (scritte nel 1985 e
pubblicate postume tre anni più tardi), ci svelerà del tutto il segreto della
sua “svolta” e le convinzioni più profonde che ad essa sottendevano. É in Leggerezza che fornisce la prima chiave
di lettura importante:
Presto mi sono accorto che tra i
fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità
scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che
mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la
pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che si attaccano subito
alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle (Calvino 1988, p. 6).
Come sfuggire a questa pesantezza, a questa inerzia? Calvino
cita il mito di Perseo: così come l’eroe evita di rimanere pietrificato dalla Medusa
e la sconfigge guardandola soltanto attraverso il riflesso del suo scudo di
bronzo, così egli per vincere la pesantezza del reale, decide di raccontarlo attraverso
immagini mediate e fantastiche. Ancora più rivelatoria forse Visibilità, l’unica lezione per la quale
Calvino non indicò l’oggetto stesso della trattazione direttamente nel titolo
(si tratta, in fondo, di un mascheramento vero e proprio): Visibilità affronta infatti il tema dell’immaginazione, dando vita
a quella che a mio avviso si dimostra la lezione più complessa e, insieme ad Esattezza, il vero cuore di tutta
l’opera. Eppure Calvino decise di non palesare quel “valore” nel titolo. Non conosciamo
le ragioni di questa scelta, certo però non possiamo dimenticare che l’immaginazione
era (e in molti casi lo è ancora), una facoltà scomoda e largamente criticata dagli
intellettuali e da molti artisti del secondo dopoguerra[8].
Citerò a questo proposito la Postfazione[9]
di Eugenio Montale ad un’edizione delle Cosmicomiche,
nella quale, accanto alle parole di elogio, non è difficile scorgere in
controluce una critica tagliente, soprattutto quando parla della «lucida
intelligenza di uno scrittore che sta trincerandosi (ma forse non per sempre)
in un suo fortilizio di disimpegno e di inappartenenza» (Montale 2015, pp.
143-145).
[1] Cito solo alcuni esempi cinematografici: Ridley Scott, Blade Runner (1980), Wachowski &
Wachowski, Matrix Trilogy (1999-2003), Proyas, Io, Robot (2004), ma gli esempi naturalmente sono
numerosissimi. Questi due “elementi tematici” costituiscono una struttura
portante che dà forma al tessuto narrativo principale ma che può contenerne molti
altri. Tolkien e Rowling sono estremamente ricchi da questo punto di vista.
[2] Interessante il collegamento dell’immaginario
di Tolkien con questi ultimi: in Avengers:
Infinity war (2018) sono le 6 gemme
dell’infinito a garantire il potere supremo sull’universo tutto a Thanos; in Justice League (2017) della DC Comics,
tre misteriose scatole madri che il malvagio Steppenwolf deve recuperare. Un
chiaro riferimento agli Anelli. E altrettanto interessante il diverso sguardo
di fiducia nell’umanità e nella gioventù di Tolkien e Rowling: il giovane Harry
non avrà bisogno, per liberarsi della potentissima bacchetta magica di Sambuco,
di un Gollum, egli stesso la spezza e la getta nel fiume, dimostrando così di
non esserne corrotto, al contrario di Frodo, “il più puro tra i puri”, che non riesce
a liberarsene volontariamente.
[3] Film come Tomorrowland – Il mondo di domani (2015) e la sua
visione ottimistica del futuro sono un’assoluta rarità. È indubbio che la
fantascienza parli forse più del presente che non del futuro, e della visione
più profonda che l’uomo ha di se stesso. Tuttavia, in questa visione, è
compresa la percezione del futuro.
[4] Montaigne attribuisce in realtà
questa frase ai «dotti».
[5] Sembra che proprio l’immaginazione,
vale a dire una maggiore capacità di astrazione e di pianificazione fosse la
carta vincente dell’Homo sapiens sul Neanderthal. Si veda C. Tuniz, Il patto tra Sapiens e lupi che ha
sterminato Neanderthal, «Lettura», supplemento al «Corriere della sera» del
26 novembre 2017.
[6] A Rodari ho dedicato Grammatica dell’armonia fantastica
(Anicia, Roma 2012), in cui ho cercato di rivedere il mio mestiere di
insegnante e di compositore alla luce della sua Grammatica della fantasia, e una serie di brani musicali tratti dalle
sue Favole al telefono per voce
narrante e quintetto di fiati. A Calvino e alle sue Lezioni americane, ho dedicato Cronodiànoia
o del realismo interiore (Armellin, Padova 2015), in cui ho cercato di
trasportare e tradurre i cinque valori delle Lezioni nel linguaggio musicale, e il brano per violoncello e
pianoforte Sei immagini poetiche per il
terzo Millennio (Armellin, Padova 2014).
[7] Il corsivo è mio.
[8] «L’immaginazione, questa facoltà
meravigliosa, se è lasciata senza controllo, non fa altro che appoggiarsi sulla
memoria. La memoria riporta alla luce cose risapute, sentite o viste, un po’
come i ruminanti rigurgitano l’erba. E’ forse masticata, ma non è digerita né
trasformata. Tutti questi ricordi che sembrano tornare spontaneamente e senza
sforzo danno l’impressione di possedere una fertile immaginazione… Mi oppongo a
tale ingenua illusione». Boulez P. (1990), Il
paese fertile – Paul Klee e la musica, Leonardo, Milano, pp.146-147.
[9] Apparsa per la prima volta con il titolo È fantascientifico ma alla rovescia sul «Corriere della sera» del 5 dicembre 1965.
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