Strettamente confidenziale
Saper scrivere/non saper scrivere - Confessioni di
un compositore in crisi di fronte a due domande fondamentali
Nei giorni scorsi Federico Biscione ha dato il via su
FB ad una discussione sui concorsi di composizione, e le osservazioni che ne
sono scaturite sono state molto interessanti.
I concorsi hanno nella maggior parte dei casi delle
impostazioni stilistiche ben precise, e scelgono, generalmente, le composizioni
migliori all’interno della rosa delle più complesse e – perché non possiamo
dirlo? – delle più ‘dissonanti’.
Quindi non dovrei stupirmi se dal 1990 non ho mai
vinto un concorso (tranne quello per l’insegnamento, quello del corso di
Morricone alla Chigiana e qualche segnalazione…), dal momento che il mio stile
si è fatto sempre più semplice, fiabesco e consonante… quasi zen direi.
Tuttavia le considerazioni che si fanno per gli
altri, con se stessi non valgono. Non possiamo fornirci alibi da soli, non
possiamo nasconderci.
La verità è che avrò partecipato forse ad una
trentina di concorsi in 25 anni, senza vincerne uno.
Mentre, al contrario, al primo concorso letterario
al quale ho partecipato in assoluto nella mia vita, quasi per caso, ho vinto il
primo premio per il miglior romanzo…
Questo non può non spingermi a qualche riflessione,
e a farmi due domande fondamentali:
1. 1. Dovrei
forse semplicemente dedicarmi alla scrittura e abbandonare la composizione?
2. 2. Applico
forse dei metodi diversi quando compongo note e quando scrivo parole?
Riguardo alla prima domanda non mi esprimo, almeno
per ora.
Per quanto riguarda la seconda, ecco alcune
considerazioni che spero possano essere utili, come spunto di riflessione sulla
creatività, a tutti.
a. A) Ci
sono molte cose in comune nel creare musica e comporre delle narrazioni
verbali.
Una di queste è la
disposizione nei confronti della pagina
bianca. Cosa vogliamo fare, dove vogliamo andare, da dove vogliamo partire e
qual è l’idea generale?
La mia disposizione nei
confronti di suoni e parole è qui totalmente opposta.
L’idea di un pezzo
nasce gradualmente, da un suono, da una piccola e vaga idea, imprecisa. Solo
gradualmente e molto a fatica si compone in una forma, in un’idea chiara, che
non mi si svelerà del tutto però se non alla fine. Mi consola sapere che questo
atteggiamento lo condivido con molti compositori…
Quando scrivo parole
spesso ho già tutto perfettamente scritto nella testa. Mi si stampa
all’improvviso nella mente, e non devo fare altro che trascriverlo. Il lavoro
che segue è poi sulla lingua, sul ritmo, ma la pagina resta fondamentalmente
immutata, se non per piccoli dettagli: virgole, qualche termine, lo spostamento
di un periodo prima o dopo, qualche cancellazione.
Niente rispetto al
lavoro fatto coi suoni, che porta a volte ad una trasformazione radicale e
totale delle idee originarie. Un lavoro molto più faticoso e sudato.
b. B) Scrivere
parole mi emoziona quanto e forse più che scrivere musica. Mi è capitato di
piangere sia scrivendo che rileggendo quello che avevo scritto… Però mi sembra
di avere un controllo maggiore. Un dominio più freddo e sicuro delle emozioni
che si agitano in me di quando scrivo musica. Lo scrivere musica mi costa molta
fatica, e scavare nel suono lo trovo emotivamente sfiancante. A volte ho considerato
lo scrivere parole come una sorta di vacanza dallo scrivere musica, infatti.
Arriva un momento in cui tendo a mettere il punto. Con le parole invece non mi
fermo mai finché non sono assolutamente sicuro del risultato. Come un mastino
non mollo la presa fino all’ultimo…
c.
nelle foto: composer on the beach, Capo Testa, Gallura, esettembre 2013
C) Quando
scrivo musica mi sento enormemente condizionato dall’ambiente nel quale lavoro
e che sento fondamentalmente ostile. Mi sento come un afro-americano che lavora
nello studio legale di un gruppo di avvocati bianchi. Sorrisi ed educazione,
molti di loro mi rispettano davvero, ma molti altri mi considerano pur sempre e
solo un nero. Nell’arte purtroppo il razzismo è ancora molto forte, come ho
scritto in un post. Anzi, l’arte è l’unico luogo al mondo dove essere razzisti
è ancora considerato un pregio e non un abominio: il considerare qualcuno non
per quello che fa e che è, ma per il ‘colore’ delle sue scelte musicali.
Quando scrivo parole niente di
tutto questo. Sono un outsider a priori, ma un outsider che ha qualche carta in
più perché ha percorso i difficili ed impervi cammini della composizione
musicale. Mi sento libero e più sicuro di me. E poi fondamentalmente me ne
frego.
Qualche considerazione conclusiva.
Scrivere musica credo sia
indubbiamente un’operazione molto più complessa e faticosa che scrivere parole.
Nessun compositore potrebbe mai arrivare alle ottanta pagine al giorno –
comunque un record – che scriveva Simenon, nemmeno Mozart o Shostakovic ,
avrebbero potuto.
Ci vuole tempo e molta, molta
fatica.
Tuttavia, giudicando me stesso,
incomprensibilmente, quando scrivo parole riscontro in me un atteggiamento più
risoluto ed energico. Quasi fosse fare lo scrittore il mio vero lavoro, e non
il contrario. Di certo mi sento più libero, di certo questa libertà mi fa sentire
meglio.
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