Il nonno dimenticato
Quella porta
era sempre stata lì.
Semplicemente
Matteo non vi aveva mai prestato attenzione.
Certo, come tutti i
bambini era curioso.
Eppure, sebbene
passasse davanti a quella porta
almeno dieci volte al giorno, fino a quel momento non si era mai chiesto: “Dove
porterà mai? Cosa c’è dietro?”
Sembra strano, ma è così. Quella porta era lì e basta. Una porta come tutte le altre. Accanto
a un vecchio quadro, a cui nessuno faceva più caso, e vicino a un piccolo
mobiletto che sembrava così tanto vecchio e tanto fuori moda da chiedersi come
mai nessuno non lo avesse ancora portato via.
Ma da quella parte della casa ci si passava sempre di
corsa, e così non si pensava mai a quella
porta. Al massimo la mamma si fermava a guardare il mobiletto, come se
stesse cercando di ricordarsi qualcosa, e poi riprendeva il suo passo veloce e
sempre di fretta.
Quel giorno però la macchinina telecomandata di Matteo
andò a sbattere proprio contro quella
porta, e fece un rumore strano. E Matteo si rese finalmente conto che lì,
in quell’angolo della casa c’era proprio una
porta, e che nessuno, proprio nessuno
la usava mai né si chiedeva dove portasse.
Matteo prese la macchinina, si tirò su in piedi, e guardò la porta. La guardò come se si fosse
reso conto improvvisamente che a casa sua viveva un elefante, o un marziano. La
guardò col cuore che gli batteva forte, come se si fosse trovato all’improvviso
in un’altra casa, nella casa di una famiglia sconosciuta. Ma era casa sua, non
c’era alcun dubbio. Gli oggetti, i mobili, gli odori, i colori...era proprio la
sua casa.
E mentre pensava a queste cose, vide la sua mano
afferrare la maniglia, ma gli venne una paura così grande che corse sul divano
e si nascose sotto uno dei grandi cuscini.
In quel momento sentì la voce della mamma che lo
chiamava: “Matteo, Matteo! Arianna sta arrivando. Le ho appena parlato. Scende
ad aiutarti a fare i compiti e se io e il papà tardiamo, ti metterà anche su la
cena…Matteo, ma dove sei?” … “Ah, eccoti qui…volevi farmi uno scherzo, eh!”
Matteo si tirò su, si sentiva confuso, ma si dimenticò
subito della porta quando sentì il campanello di casa…
“Arianna, Arianna”, gridò.
Matteo adorava Arianna.
Era una ragazza grande, aveva quasi quattordici anni, ed
era bellissima. E quasi tutti i pomeriggi, quando i suoi genitori erano al
lavoro, scendeva per stare con lui e aiutarlo a fare i compiti.
Andarono in camera sua e si sedettero alla scrivania. Ma
Matteo era distratto e guardava fuori.
“Cos’è quella specie di stella rossa”, chiese ad Arianna,
indicando una luce lontana.
Arianna, che aveva sentito quella domanda almeno altre
mille volte e sapeva benissimo che quando Matteo cominciava così voleva dire
che non c’era proprio verso di farlo studiare, almeno per un po’, gli rispose
con dolcezza:
“Non è una stella, Matteo, ma è la luce di un ripetitore.
Una grande antenna che serve a far funzionare i telefonini”.
Mancava almeno un mese alla primavera, e faceva ancora
buio presto. La luce rossa brillava tra i tetti delle case, come una stella che
stesse tramontando.
“No, non è vero! E’ una stella bellissima, e tu non lo
sai…queste cose non le sai, non le capisci perché sei grande!”, disse Matteo, interrompendosi poi di scatto:
“La mamma ha detto che forse l’anno prossimo me lo regala un telefonino,
sai?”,.
“E me lo darai il tuo numero?”
“Sarai la prima ad averlo!”, le rispose subito Matteo.
Il quel momento si sentì un fischio lontano. A volte,
quando la città per un attimo si faceva più silenziosa, si sentiva anche il
treno veloce passare, quello che veniva dal nord.
“Il treno, il treno!” Gridò Matteo e corse alla finestra.
E Arianna capì che quel pomeriggio sarebbe stato
veramente difficile fare i compiti.
Passò una settimana e forse anche due, quando un
pomeriggio Matteo dovette rimanere solo in casa. Arianna era partita per
qualche giorno; era andata a trovare la nonna. E nessun’altro poteva stare con
lui.
“Matteo”, gli disse la mamma, “stasera non farò tardi.
Devi stare da solo soltanto per un paio d’ore. Puoi metterti a guardare la
televisione se vuoi, e vedrai che il tempo passerà in fretta. Mi raccomando, se
qualcuno suona alla porta, chiedi chi è, ma non aprire mai a nessuno. Neanche
se dicono che è la polizia, o un amico…non aprire e basta. Devi dire soltanto
che il papà e la mamma non ci sono e segnarti il nome… E soprattutto non devi
uscire, per nessuno motivo, intesi?”
“Ho capito, ho capito”, rispose Matteo un po’ seccato, “
me lo hai detto milioni di volte! Posso telefonarti se mi va?”
“Certo…”
“E posso chiamare anche il papà?”
“Il papà in questo momento è in aereo, non può usare il
telefono, tesoro mio. Ma stasera sarà qui a cena, e mangeremo tutti insieme.
Ecco, adesso scappo”.
La mamma diede un bacio a Matteo e scappò via.
Matteo era abituato a passare un po’ di tempo da solo, ma
quel pomeriggio era inquieto. Non aveva avuto il coraggio di dirlo alla mamma
però.
Andò almeno sei volte dal salotto alla sua camera, passò
più dalla cucina e andò due volte a fare la pipì. Ma sapeva benissimo cos’era
quella cosa a cui stava cercando di non pensare.
Eppure era più forte di lui, non ci riusciva.
Apriva il suo fumetto preferito e non riusciva a
concentrarsi.
Accendeva la tv, e l’attimo dopo era già di nuovo in
piedi a girare per casa.
Alla fine cercò di farsi coraggio e si diresse verso quella porta.
Pensò a cosa avrebbe fatto Spider-man, immaginò di essere
Hulk o Bat-man.
Ma non gli fu di grande aiuto.
Rimase in piedi a fissare la porta. Ero terrorizzato, ma sapeva che doveva aprirla.
Allora fece un bel respiro e strinse la maniglia.
Contò fino a tre, poi arrivò fino a dieci…infine
all’undici e mezzo la spalancò.
Bum! Il suo cuore fece un salto.
Chiuse gli occhi, stringendoli forte…poi li riaprì…
Lunghi corridoi bui, scale a chiocciola, scantinati
ammuffiti e maleodoranti…
No, niente di tutto questo. Niente di speciale. Oltre quella porta non c’erano scale buie né
strani corridoi…
C’era solo una stanzetta, poco illuminata.
Rimase immobile per tanti, lunghissimi minuti.
Il cuore gli batteva fortissimo e gli scappava di nuovo
la pipì, ma non poteva muoversi.
Alla fine si fece coraggio e accese la luce.
C’era un letto sfatto, e in un angolo della stanzetta, su
di una poltroncina era seduto un vecchio. Un uomo minuto dai capelli
bianchissimi: sembrava essersi appisolato.
Ma appena la luce si accese aprì gli occhi.
Matteo fu preso da un voglia incontrollabile di scappare
via… c’era uno sconosciuto in casa sua, un vecchio!
Ma il vecchio si voltò, lo guardò con dolcezza e gli
sorrise.
“Finalmente siete venuti”, disse.
“E tu devi essere Matteo”, aggiunse, “come sei
cresciuto!”
Matteo non riusciva a dire una parola.
La sua bocca era paralizzata, come quando non si riesce a
muovere la mascella dal freddo che fa.
“E’ già da un po’ che aspetto la colazione…ho così tanta
fame! La mamma si sarà dimenticata stamattina, eh…con tutto quello che ha da
fare!”
La mamma si era dimenticata, sì, pensò Matteo, ma non
certo quella mattina.
Doveva essersi
dimenticata da chissà quanto tempo. Perché erano ormai anni che nessuno apriva
quella porta.
Il vecchio guardò Matteo un po’ deluso. Forse si
aspettava che avesse un vassoio, o qualcosa del genere.
E in quel momento Matteo lo riconobbe. Si ricordò di
vecchie foto in cui quel vecchio che gli stava davanti era più giovane e
sorrideva accanto alla mamma.
Adesso aveva capito. Quel vecchio era suo nonno.
Tutta la paura in un attimo svanì e Matteo sentì un nodo
in gola e la voglia di piangere e gli corse incontro.
“Nonno, nonno caro”, disse, e lo abbracciò. “Come abbiamo
fatto a dimenticarci di te! Vieni, vieni con me, che andiamo in cucina a
mangiare. Ma non è più il momento della colazione, sono le cinque passate!
Adesso è l’ora della merenda. Vieni, che ti aiuto ad alzarti”.
Il nonno si alzò a fatica, e cominciò a camminare con
passo barcollante. Ma lentamente si riprese e arrivò in cucina che già
camminava spedito.
“Nonno, nonno caro”, ripeteva Matteo. Poi aprì il
frigorifero e tirò fuori tutto quello che c’era.
“Avrai proprio fame”, disse.
“Non ricordo bene, ma deve essere passato così tanto
tempo…da quanti giorni me ne stavo lì da solo?”
“Tanti, nonno, tanti…anche se sono le cinque del
pomeriggio, ti va questa pasta al forno? L’ha fatta ieri sera la mamma, è
buonissima!”
“Magari, la mangerei volentieri!”
“E c’è questa bella parmigiana…e anche dei peperoni al
forno, e la braciola!”
Il nonno mangiava con gusto. Il suo viso era dolce, Un
po’ smarrito, e forse confuso. Ma sereno in fondo. Sembrava un bambino. Matteo
si sentiva grande accanto a lui, e sentiva di volergli un gran bene.
“Vuoi anche un po’ di vino?”
Matteo prese il vino dalla dispensa.
Ma mentre il nonno si versava il vino in un bicchiere, e
il liquido rosso scivolava rumorosamente nel vetro, Matteo si ricordò che doveva andare in bagno,
e anche di corsa.
“Nonno, vengo subito, devo…devo andare in gabinetto,
aspettami qui e non ti muovere”.
“Oh sì, bravo, e dopo ci devo andare anche io!”
Disse il nonno sorridendo.
Matteo se la stava facendo quasi addosso e corse in
bagno.
Stava ancora facendo la pipì quando sentì però una porta
sbattere.
“Nonno, nonno”, gridò.
Accidenti. Non la finiva più. Cercò di sbrigarsi. Poi si
chiuse bene i pantaloni, si lavò le mani e corse di nuovo in cucina. “Nonno?”
Il nonno non c’era.
“Nonno, nonno!”
Poi si ricordò di quella porta che sbatteva. Era il
rumore della porta d’ingresso!
Non pensò neanche per un istante al fatto che non doveva
mai uscire quando era solo. Che quella porta doveva sempre restare chiusa.
Adesso non era solo. Cioè lo era, ma non lo era. Adesso c’era il nonno. E forse
il nonno però era uscito…
Aprì la porta di casa e corse giù per le scale e arrivò
fino al portone d’ingresso, gridando a squarciagola. “Nonno, nonno!”
Arrivò fino in strada. Non avrebbe dovuto mai e poi mai
stare lì. Non doveva mai uscire, e tanto meno in strada!
“Nonno, nonno!”, gridò ancora Matteo, questa volta
disperato.
“Nonno!”
Il nonno non si vedeva.
Possibile che fosse sparito così in fretta?
Matteo doveva decidere in fretta.
Stava disubbidendo almeno a dieci regole assolute, sulle
quali il papà e la mamma avevano insistito tanto…
Ma questo era un caso eccezionale.
Allora si guardò bene intorno, fece attenzione che in
quel momento non passassero delle macchine, fece un lungo respiro e si mise a
correre. Dall’altro lato della strada e poi verso la piazza in fondo.
“Nonno, nonno!”, continuava a gridare.
Arrivò fino all’edicola. Il posto più lontano dal quale
sapeva ancora orizzontarsi bene. Ma del nonno non c’era traccia.
Gli occhi di Matteo si spalancarono di ansia e
agitazione, e di paura.
A chiunque avrebbe fatto tanta tenerezza, ma nessuno
passava di là in quel momento.
Si voltò indietro, a guardare il portone di casa in fondo
alla via. E poi avanti. Verso la fitta rete di strade che lo portavano lontano,
e in mezzo alle quali si sarebbe sicuramente perduto.
Che fare?
Purtroppo l’edicola era chiusa. Altrimenti avrebbe
chiesto al giornalaio se aveva visto il nonno.
Rimase fermo, senza andare né avanti né indietro per un
po’.
Poi, alla fine, con un nodo in gola e la voglia di
piangere, se ne tornò a casa, piano piano.
Entrò nel portone, rimasto semi aperto. Risalì i gradini
uno a uno, e non come faceva di solito, sempre di corsa, due o tre alla volta,
e arrivò davanti alla porta di casa.
In quel momento gli venne in mente qualcosa.
E se il nonno, invece di scendere, fosse salito?
All’ultimo piano c’era la terrazza, dove una volta si
mettevano i panni ad asciugare, soprattutto le grandi lenzuola bianche. Si
ricordava ancora quando ci saliva con la mamma. Era piccolissimo. Lo ricordava
come un posto magico. E poi c’erano i cassoni dell’acqua. Prima che mettessero
quella corrente.
Forse il nonno era andato là…
Riprese a salire le scale e si fermò davanti alla porta
della terrazza. La aprì.
Arrivò un’aria era fredda, e il vento spingeva la porta e
Matteo fece fatica ad aprirla.
Fece appena in tempo a uscire sulla terrazza che la porta
si richiuse violentemente facendo un gran rumore di metallo, e l’eco si sentì
per tutte le scale.
Non c’erano panni ad asciugare. Ma si vedevano tante
antenne sui tetti delle case. Un bosco di antenne della televisione.
Tantissime, e tutte diverse.
Matteo si guardò in giro.
E il nonno era là. Appoggiato al parapetto, a guardare
l’orizzonte.
“Nonno, nonno!”, gridò.
Il nonno si voltò e gli sorrise.
“Guarda Matteo, guarda come è bella la città da qui.
Vieni accanto a me”.
Matteo corse da lui e gli si mise al fianco,
appoggiandosi al suo braccio.
Il sole stava tramontando e rendeva tutto meraviglioso. I
tetti brillavano come se coperti da una polvere d’oro. Matteo non aveva mai
visto la città in quel modo.
Era bellissima. E soprattutto adesso, per la prima volta,
la capiva.
Metteva ordine a tutti quei posti che si affollavano
nella sua mente come giocattoli riposti disordinatamente in una cesta.
Tutti i luoghi che conosceva erano come delle isole,
staccati da quello che avevano intorno, e non avrebbe saputo collocarli, né
tantomeno raggiungerli, da casa sua.
Invece adesso era tutto chiaro.
Dall’alto si vedeva la lunga strada che, dopo il giornalaio,
continuava il suo percorso fino al centro della città.
E lungo quel percorso c’erano i giardinetti, dove andava
spesso con Arianna.
Ci portavano il cane dei vicini, un cucciolo di
Terranova.
Ma quando ci andavano, Matteo era troppo impegnato a giocare
con quell’adorabile cagnolino, e non prestava attenzione alla strada.
E dopo i giardinetti c’era la piazza con quelle grandi
statue di bronzo, statue di persone importanti. C’era anche un musicista.
E poi, appena svoltato l’angolo, sulla destra, c’era la
scuola. La sua scuola.
“Guarda nonno! Quella è la mia scuola! Come è buffa da
qui, sembra un giocattolo! La riconosco perché nel cortile c’è lo
scivolo-balena. Ce lo hanno messo da poco!”
Il nonno respirò profondamente quell’aria pulita che
arrivava col vento della sera, e che probabilmente arrivava dalle montagne, il
cui profilo si vedeva all’orizzonte.
“Era tanto tempo che non venivo qui. Una volta salivo
tutte le sere a fumare la mia pipa, ma poi ho dovuto smettere, perché mi sono
ammalato…”.
Matteo lo guardò, con aria preoccupata.
“Ma no, adesso sto bene, sai. Non devi preoccuparti.
Guarda invece quel vecchio palazzo. Quello è l’Istituto Poligrafico. Il nonno
lavorava lì una volta. E quella, un po’ più in fondo è la stazione. La vedi?”
In quel momento si sentì il suono familiare del treno
veloce della sera e a Matteo venne in mente la sua stella.
“Vieni nonno, vieni che dobbiamo cercare una cosa”.
Lo prese per mano e cominciò a fargli fare il giro della
terrazza per cercare la stella rossa.
Fecero un giro quasi completo prima di vederla.
“Eccola, eccola, quella è la stella rossa che si vede
dalla mia stanza, la vedi? Hai visto che bella? E’ una stella vero? Arianna
dice che è un’antenna!”
“Ma certo che è una stella”, disse il nonno, “e Arianna
chi è?”
“E’ una mia amica, ma queste cose non le capisce”
Poi aggiunse:
“Non pensavo che la città fosse così grande. Non l’avevo
mai immaginata così.
Adesso saprei andare in giro da solo e trovare tutti i
posti…”.
Il nonno sorrise.
“Adesso ho freddo però”.
“Sì, andiamo giù, sta facendo buio”.
E così scesero.
E la mamma li trovò seduti davanti alla porta di casa,
che naturalmente Matteo aveva chiuso, ma senza avere le chiavi.
“Matteo! Ma cosa fai qui fuori!”.
Ma poi, subito dopo vide suo padre…
“Papà”, disse con la voce rotta dall’emozione, “papà…”, e
non seppe dire altro.
Il padre l’abbracciò e asciugò le lacrime della figlia:
“non preoccuparti tesoro, lo so, capisco, con la vita che fai!”, ed entrarono in casa.
Da quel giorno Matteo passò tutto il suo tempo con il
nonno e con Arianna. E insieme impararono a fare delle bellissime passeggiate,
e arrivarono fino alla stazione dei treni, dall’altra parte della città, senza
mai perdersi. Matteo si fece regalare una mappa dal papà e imparò a conoscere
tutti i posti e come raggiungerli. E se c’era qualcosa che non capiva, andava
in terrazza col nonno e la studiava bene dall’alto.
Le cose non erano mai state così chiare e belle come
viste a quell’altezza col nonno accanto.