Perché le Canzoni-Madrigale e il pop?
Chiunque mi conosca sa,
o almeno dovrebbe sapere, che le mie azioni e le mie scelte nascono sempre da
lunghe riflessioni, da quell’attitudine a scavare fino ai principi primi che
danno vita alle idee, alla loro stessa sorgente. Attitudine ben presente ma non
prioritaria, e che per un paio di anni mi ha spinto a studiare filosofia, avendo
scambiato allora un pacchetto azionario di minoranza (la filosofia appunto) con
quello di maggioranza assoluta (il creare, lo scrivere, il comporre).
Utilizzare lo stile pop
oggi non è quindi una scelta superficiale, di stanchezza e rimbambimento senile
o di piacioneria, per dirla alla romana. Ma il proseguimento di idee molto
precise che perseguo da anni, come ha ben riportato Renzo Cresti nel suo libro:
Da Musica presente:
tendenze e compositori di oggi, 2019.
Sottolineo che queste sono cose che ho scritto nel 2010...
Diversi articoli
pubblicati su questo blog, come “Addio al Novecento” hanno ben spiegato le
ragioni del mio allontanamento dalla pandissonanza
e dai linguaggi dell’avanguardia del secondo dopo guerra. Un allontanamento,
sia ben inteso, non un rifiuto. Proprio perché sono figlio del Novecento credo
anche che la musica non possa restare inchiodata al linguaggio di una
generazione che ha compiuto la sua rivoluzione più di settant’anni fa. Questa
paralisi la ritengo assurda e inspiegabile. Il nuovo Millennio ci chiama verso
altre direzioni.
Ora vorrei citare un breve estratto
dalle note di sala che ho scritto quest’anno per MITO, per il concerto di un
ensemble di sassofoni. Tre dei cinque brani del Signum Saxophone Quartet costituiscono
un piccolo compendio di storia della musica americana, e penso che farvi
riferimento possa essere molto utile per comprendere le mie scelte. I brani in
questione sono il Quartetto americano di Antonin Dvořák, la Rhapsody in blue, di
George Gershwin e le Danze sinfoniche di West
Side Story di Leonard Bernstein.
Dvořák fu invitato negli Stati Uniti da
Jeannette Thurber, ricca mecenate e fondatrice del Conservatorio di New York, La Thurber aveva delle idee ben chiare in mente: desiderava
dare una forte spinta alla creazione di una musica genuinamente e intimamente americana. La scelta su Dvořák cadde non
solo per i tanti riconoscimenti che egli aveva ottenuto in ambito
internazionale, ma soprattutto perché il compositore boemo era stato da sempre
molto interessato alla musica popolare del proprio paese.
Dvořák rimase molto colpito di quanto la musica
americana suonasse europea ed accademica e si chiese come fosse possibile che i
compositori americani non prestassero attenzione alcuna alla musica popolare
del loro paese, che comprendeva, oltre alla musica dei bianchi – cattolici irlandesi
e ebrei – anche quella degli afroamericani, come i canti delle piantagioni e
quella dei nativi americani.
Studiò seriamente queste musiche, facendosi condurre
da alcuni studenti per ascoltarle direttamente in loco e ne utilizzò spunti,
citazioni, ritmi e atmosfere nella sua Nona
sinfonia e nel Quartetto.
L’aver mostrato agli americani, musicalmente ancora
soggiogati alle estetiche europee, cosa fosse possibile realizzare con la ricchezza
musicale della quale disponevano, non sarebbe stato senza conseguenze per gli
sviluppi della musica del Nuovo Continente.
Infatti una
nuova strada era stata tracciata, e dopo poco più di trent’anni dal viaggio di Dvořák in
America, i tempi sarebbero stati ormai
maturi per la nascita del primo vero capolavoro che avrebbe in breve tempo
conquistato il mondo intero come genuinamente e intimamente americano: Rhapsody in blue.
Era stato Paul Whiteman a commissionare la composizione a Gershwin. Whiteman, direttore di una delle più
famose orchestre da ballo degli anni Venti e chiamato il re del jazz, aveva un’idea
fissa che lo perseguitava da molti anni: portare fuori il jazz dalle sale da
ballo, dai cabaret e dai locali notturni, e introdurlo nelle sale da concerto.
Entrambi i casi – Dvořák e Gershwin/Whiteman – ci dimostrano come la
soluzione per uscire da un impasse, da una stagnazione artistica, da il riprodurre
accademico e ormai vuoto vecchi stilemi, era a portata di mano di chiunque: si
trattava solo di avere gli occhiali giusti per vederla.
Di prendere in gran parte spunti dalla musica popolare,
come i compositori di tutte le epoche hanno sempre fatto (tranne quelli della
generazione del dopo guerra…), e di inserirli in un contesto colto. Di comporre
cioè questi spunti in forme e strutture complesse. Di portare, come voleva Whiteman,
la musica jazz dalle bettole e dai locali notturni, nelle sale da concerto.
Nel mio caso, e non sono certo il primo, di portare
il pop, dagli stadi, dalla televisione, dalle radio, alle sale da concerto, di
portarlo alle orchestre e agli ensemble da camera. Non certo per nobilitarlo,
perché non ne ha bisogno, ma per dargli nuova forma e far crescere al tempo
stesso la musica colta alla luce e al nutrimento della semplicità e
immediatezza della musica popolare. Un bagno di umiltà, per ritrovare se
stessi.
Le
Canzoni-Madrigale non sono più canzoni pop, con le loro durate, con la loro
struttura, con la loro complessità. Ma cercano, attraverso uno stile semplice di rinnovare la musica colta attraverso quei
meccanismi che ne hanno caratterizzato tutta la storia, incontrando all’inizio
quegli stessi dubbi e perplessità, che tra pochi anni non faranno altro che farci
sorridere.